Come i videogiochi sono (ancora) il medium di riferimento per la narrazione

Come i videogiochi sono (ancora) il medium di riferimento per la narrazione

Death Stranding, Cyberpunk 2077 e ancora The Last of Us: Part II. Questi, e altri titoli meno noti al grande pubblico, hanno "osato" giocare le proprie carte sul fronte della narrazione, aspetto che sempre più spesso finisce in secondo piano in un'epoca che vede, ormai, il predominio dei videogiochi multiplayer. Prendiamo in esame i casi più eclatanti, e i più criticati, per affrontare una doverosa analisi del medium videoludico come prodotto narrativo.

di , Rosario Grasso pubblicato il nel canale Videogames
CD Projekt RedRockstar Games
 

Sono due tra i videogiochi rilasciati nell'ultimo anno che meritano una considerazione particolare, Death Stranding e il nuovo Cyberpunk 2077

Questi due titoli confermano la crescita e la maturità del medium videoludico come forma narrativa avanzata, efficace sul piano del trasferimento del messaggio. Più del cinema, e più di ogni altro contenuto artistico, grazie ai mezzi propri del videogioco e l'interazione in primo luogo, con la sua capacità di aumentare il coinvolgimento.

Death Stranding e Cyberpunk 2077 sono l'ultimo gradino di un lungo percorso di evoluzione dei videogiochi, che ha riguardato principalmente due aspetti. L'evoluzione tecnica, ovvero la capacità di ricostruire un mondo virtuale credibile e capace di vivere di vita propria, per certi versi alternativo a quello reale; e poi la capacità di infondere una narrazione all'interno del contesto tecnico, che dia un senso e che trasmetta un messaggio. Da questi due punti di vista, e come compendio di un percorso che è iniziato più di 40 anni fa, questi videogiochi possono essere visti come i "veri videogiochi", in alternativa ad altre forme di intrattenimento elettronico che vanno oggi per la maggiore, come eSport e mobile gaming in particolare, ma che non possono vantare le peculiarità di cui stiamo parlando in questo articolo.

Evoluzione del medium videoludico che va incontro a mille difficoltà. Parliamo del motivo per cui i titoli che qui in qualche modo stiamo osannando oggi non rappresentano il vertice del mondo videoludico, e anzi sono relegati a comprimari rispetto ad altri generi più immediati. Migliorare i videogiochi significa renderli più convincenti e più coinvolgenti, oltre che più lunghi. In un mondo in cui si richiede sempre più l'esperienza frammentaria - che così bene sa offrire il mobile gaming - i videogiochi "veri", e di qualità, tendono a essere respinti dal grosso del pubblico.

Voi direte, "è normale e, in fondo, a noi che li amiamo comunque cosa ci importa?"; non è così semplice, purtroppo. A causa del minore interesse sulle produzioni di questo tipo stanno diminuendo consequenzialmente le vendite e quindi i fondi a disposizione dei team di sviluppo. Ciò riguarda CD Projekt RED, ma anche Rockstar - che rimane comunque lo studio numero uno per capacità di riprodurre mondi realmente "vivi" e articolati - e praticamente tutti gli altri studi di sviluppo. Portare a compimento progetti enormi come Death Stranding o Cyberpunk 2077 è sempre più difficile, a tratti inumano, come confermano i casi di crunch, anche in Rockstar oltre che in CD Projekt.

Ma torniamo all'argomento centrale dell'articolo, e partiamo da Death Stranding. Cos'ha di tanto particolare questo videogioco? Riesce a trasmettere un messaggio filosofico con un'intensità irriscontrabile in nessun altro prodotto multimediale, neanche al cinema; al punto che ci permette di dire che i videogiochi sono, nonostante tutto, ancora il medium trainante nelle modalità di veicolazione del messaggio.

In questa opera filosofica di Hideo Kojima si evidenzia il paradosso tra la necessità dell'uomo di essere un animale sociale e la conseguente inevitabile conflittualità. Kojima qui sta andando a individuare un tema essenziale della società moderna: ovvero la fuga dalla società e il conforto in sé stessi, nell'individualismo e nella solitudine, pur di sfuggire al conflitto. Ma l'essere umano è veramente in grado di farlo? Di rinunciare alla socialità? E se lo facesse ci sarebbero ripercussioni su tutto quello che abbiamo conquistato a livello culturale, ma anche tecnologico, nelle ultime centinaia di anni?

Oltre alla profondità del messaggio, è da analizzare anche il modo in cui viene trasmesso. Il videogioco singleplayer è un'esperienza che si vive da soli e che, con un tale livello di coinvolgimento, isola dagli altri. Death Stranding, con le sue peculiari meccaniche di gioco, inoltre, allontana il personaggio interpretato dal giocatore - che tra le altre cose ha le fattezze fisiche di un vero attore, Norman Reedus - anche dalle forme di intelligenza artificiale, dai cosiddetti personaggi non giocanti (NPC). È un'esperienza completamente solitaria in cui meccaniche di gioco e senso del messaggio si fondono in un tutt'uno. Sulla profondità del pensiero di Kojima rimandiamo a un precedente articolo sui punti di contatto tra Moby Dick e Metal Gear Solid 5

Diversa l'impostazione di Cyberpunk 2077, ma altrettanto meritevole di menzione. Qui andiamo a immergerci in un futuro quasi completamente degradato dove la tecnologia, rappresentata attraverso l'innesto nel corpo umano di elementi cybernetici, non ha mantenuto le sue promesse, anzi ha portato alla devastazione dell'essere umano e al degrado della società.

In un contesto decisamente fascinoso come quello cyberpunk, CD Projekt RED ha saputo veicolare un messaggio politico molto profondo; e lo ha fatto attraverso un personaggio in particolare, Johnny Silverhand, ancora una volta interpretato da un attore reale, Keanu Reeves. Silverhand è un musicista fuori dagli schemi, così tanto oppositore delle corporazioni da sacrificarsi in un attacco terroristico contro una di esse.

Cyberpunk 2077 racconta la storia di un futuro dove le corporazioni hanno devastato tutto ciò che c'era da devastare attraverso la loro volontà di conquistare e di guadagnare, esacerbando alle massime conseguenze possibili la missione del capitalismo. Ci sono alcune frange della società che ancora, strenuamente, si oppongono a tale dominio, ma vengono relegate ai bassifondi e alla marginalità. All'interno di uno scenario ricostruito marginalmente (seppure con qualche limite tecnico) dal punto di vista fantascientifico e non solo, Cyberpunk 2077 mette il giocatore nei panni di un personaggio che vede l'installazione nel proprio cervello di un biochip che, in un qualche modo, trasforma la sua personalità in quella del suddetto Silverhand, con cui può interagire in vari modi - nonostante quest'ultimo sia morto 50 anni prima.

La peculiarità di Cyberpunk 2077 consiste proprio in questo: portare il giocatore a interagire con i vari personaggi che compongono la società di Night City (la città in cui è ambientato) attraverso il modo di pensare politico ed esistenziale di Silverhand. Ecco che messaggio e gameplay si fondono ancora una volta, portando il primo a un nuovo livello di profondità. Quando il giocatore avrà a che fare con un membro di una delle corporazioni ecco che Silverhand cercherà di indirizzare le sue decisioni verso interessi contrastanti a quelli delle aziende. Quando si interloquirà con un personaggio che invece ha un sentire più anticonformista e ribelle, Silverhand esprimerà il proprio appoggio.

Non è solo un modo molto efficace per sfruttare il carisma di un attore talmente famoso - tutti noi lo ricordiamo nei panni di Neo in Matrix (1999) - ma anche quello di esprimere al giocatore i limiti che lui stesso inevitabilmente ha nei confronti del medium videoludico e della sua autorialità, dove il dominio, nonostante l'interazione concessa al giocatore, rimane dell'autore (aspetto che ci ricorda il primo BioShock). In altri termini, la progressiva espansione di Silverhand nel cervello del giocatore limiterà il margine decisionale di quest'ultimo per far trionfare, poco alla volta, il volere di Silverhand/l'autore della storia.

I videogiochi "veri" sono importanti anche per altri motivi. Con il loro obiettivo di ricostruire mondi grandi e credibili, spingono verso l'evoluzione tecnologica. Nel corso degli anni hanno accelerato lo sviluppo sulle opzioni grafiche, sulla fisica e sull'intelligenza artificiale, tra le altre cose. E infatti, per molti aspetti, Cyberpunk 2077 mantiene questa promessa, con un'implementazione del Ray Tracing finalmente funzionale a rendere Night City ancora più credibile e alla base del sistema di scaling del dettaglio visivo del gioco. Cyberpunk 2077 è "miracoloso" da questo punto di vista, con un'ottimizzazione sopraffina su PC che permette di godere del Ray Tracing anche su hardware di precedente generazione (purtroppo non si può dire lo stesso delle versioni console).

La medesima evoluzione è rilevata nel meno sconfinato mondo di The Last of Us: Parte II, titolo che merita un'ultima menzione d'onore. Il blasonato capolavoro di Naughty Dog si lega indissolubilmente alle suddette opere, passando per un denominatore comune: è la violenza, una tematica spesso "abusata" in molti esponenti del genere action, ma che trova le sue interpretazioni più interessanti proprio nei titoli appena citati.

Da un lato abbiamo dunque la conflittualità di Death Stranding, quella interiore che tormenta alcuni dei personaggi con cui entriamo in contatto, e quella esteriore, la cui manifestazione fisica coincide con i pochi, "violenti" scontri a cui prendiamo parte, ma che cerchiamo di evitare in ogni modo possibile. Insomma, non è la violenza disumanizzata di Cyberpunk 2077, che dall'altro lato risulta invece un fenomeno talmente ordinario da essere ormai spettacolarizzato dalle eccentriche personalità che popolano Night City: nella città della notte, i corpi alterati dall'avanzamento tecnologico sono deturpati e dilaniati dai cosiddetti "cyberpsicopatici", attori e registi di un autentico film splatter da visionare rigorosamente con Ray Tracing attivo.

Tra questi due estremi si inserisce per l'appunto The Last of Us: Parte II, prodotto che fa della narrazione la sua "feature" di punta, ma che di certo non tralascia l'aspetto meramente ludico.

Da un punto vista scenico, il videogioco diretto da Neil Druckmann offre una rappresentazione della violenza più vicina a quella di Cyberpunk 2077, e tuttavia ne prende le distanze per quel che concerne il trattamento emotivo. Quella di The Last of Us non è una violenza spettacolare, ma brutale. Ogni colpo inferto e subito investe il giocatore stesso, arrivato a un livello di immedesimazione tale da percepire la sofferenza dei protagonisti e degli altri personaggi.

Precedendo il kolossal di Naughty Dog, Tomb Raider (2013) è stato uno dei primi videogiochi in cui l'estrema sofferenza della protagonista si è efficacemente legata alla forza di volontà a proseguire nell'avventura, alla scoperta e all'esplorazione che sono così tanto importanti in un videogioco.

Anche in questo caso, peraltro, i videogiochi avevano avuto un ruolo precursore rispetto al cinema. Prendiamo in considerazione autori come Alfonso Cuarón (Gravity, 2013) e Alejandro González Iñárritu (The Revenant, 2015): parliamo di due registi che non solo hanno fatto grande uso del piano sequenza - tecnica molto amata da alcuni game director - ma che sono riusciti a trasporre su schermo, in maniera egregia, le emozioni contrastanti vissute dai loro protagonisti.

Ammiccando alle storie più drammatiche del grande cinema, anche The Last of Us propone una rappresentazione realistica della violenza: non c'è alcun tipo di intrattenimento nei terribili atti commessi da Ellie e dagli altri superstiti; lo spettatore - sia passivo che attivo - è profondamente coinvolto ed è pertanto destabilizzato da quanto avviene sullo schermo. Alla fine, come la stessa Ellie, il giocatore si piegherà al morbo che ha segnato questo mondo, si piegherà dunque alla violenza, al male necessario per sopravvivere.

È su questo crudo realismo che The Last of Us: Parte II fonda la sua narrazione, tanto audace quanto innovativa per quanto riguarda il medium videoludico. Certamente, Naughty Dog si è spinta ben oltre i confini sfiorati da altri team di sviluppo e questa scelta non è stata sempre apprezzata, almeno da parte di un pubblico che, evidentemente, non era pronto per un prodotto di questo tipo. Eppure c'è stata grande incomprensione anche per gli stessi Death Stranding e Cyberpunk 2077, vuoi per la profonda (e tuttavia ammirevole) complessità del primo o per le famigerate problematiche che affliggono il secondo e che oscurano la sua bontà narrativa.

30 Commenti
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megamitch07 Gennaio 2021, 17:48 #1
Il titolo dell'articolo è aberrante secondo me.

Credo che il riferimento per la narrazione siano i libri. Niente si può avvicinare alla potenza di un libro.

Certo, si fa più fatica che a giocare o vedere un film.
Therinai07 Gennaio 2021, 18:12 #2
Comunque Death Stranding è uscito in Novembre 2019...
Max_R07 Gennaio 2021, 18:21 #3
Un articolo dove si tratta di narrazione.. e manca Disco Elysium
Sarà che citarlo fa meno notizia?!
Marko#8807 Gennaio 2021, 19:16 #4
Originariamente inviato da: megamitch
Il titolo dell'articolo è aberrante secondo me.

Credo che il riferimento per la narrazione siano i libri. Niente si può avvicinare alla potenza di un libro.

Certo, si fa più fatica che a giocare o vedere un film.


Concordo pienamente.
I libri sono il riferimento per la narrazione, nient'altro.
Poi si può discutere se al secondo posto ci siano i film o i videogiochi (e imho ci sono i film) ma prima di tutto c'è il libro.
Pensarla diversamente si può ed è legittimo ma è un pensiero secondo me terrificante. Mettere un videogioco davanti ad un libro è veramente triste.
bagnino8907 Gennaio 2021, 19:31 #5
Originariamente inviato da: megamitch
Il titolo dell'articolo è aberrante secondo me.

Credo che il riferimento per la narrazione siano i libri. Niente si può avvicinare alla potenza di un libro.

Certo, si fa più fatica che a giocare o vedere un film.


Da appassionato di videogiochi, concordo assolutamente.

Ma quale medium di riferimento, suvvia redazione.
albys07 Gennaio 2021, 19:59 #6
Sì, concordo in toto, titolo ridicolo.
I libri non hanno proprio eguali.

I videogames potrebbero esserlo, avendo una potenzialità mostruosa di interazione e quindi anche di possibilità di narrazione "dinamica".
Ma siamo ad almeno un decennio di distanza da ciò.
Prima va cambiata la testa dei produttori e anche quella dei fruitori.
max847207 Gennaio 2021, 20:28 #7
Originariamente inviato da: albys
Sì, concordo in toto, titolo ridicolo.
I libri non hanno proprio eguali.

I videogames potrebbero esserlo, avendo una potenzialità mostruosa di interazione e quindi anche di possibilità di narrazione "dinamica".
Ma siamo ad almeno un decennio di distanza da ciò.
Prima va cambiata la testa dei produttori e anche quella dei fruitori.


Quoto.

Solo che cambierei prima la testa dei fruitori affinché non comprino, e poi quella dei produttori, che si adeguano più o meno alle richieste del mercato
jepessen07 Gennaio 2021, 23:56 #8
Il problema e' che il target dei videogiochi molto spesso non recepisce il messaggio. La maggior parte e' formata da gente che vuole solo menare le mani, sparare all'impazzata gridando come degli ossessi e perculando il prossimo in multiplayer e via dicendo.. Semplicemente e' gente a cui non frega niente delle trame, che a mio avviso e' il motivo principale per cui Death Stranding non e' stato il successo commerciale sperato, nonostante i voti alti. Death Stranding non e' solo per chi gioca, ma anche per chi legge libri, guarda film di un certo tipo e via discorrendo. Se la maggior parte dei videogiocatori sono ragazzetti che sbarellano a Fortnite non apprezzeranno mai un gioco del genere.
ningen08 Gennaio 2021, 00:31 #9
Ridurre i videogiochi ad un semplice "nuovo modo di raccontare le storie" è una cosa che mi ha sempre fatto girare le palle, ancor più quando si prendono ad esempi da seguire giochi sempre più imbottiti di cutscene tanto da essere quasi dei film interattivi in cui il gameplay vero e proprio diventa un fastidio, sia da giocare sia per gli sviluppatori che sembrano quasi infastiditi nel doverlo inserire. In tutte e 3 i giochi citati nell'articolo infatti, l'unico vero punto di interesse è la narrativa, anzi ad essere più precisi le cutscene.
Inutile dire che preferisco videogiochi che miscelano le due cose, senza che la narrazzione fagociti completamente il gameplay (qualcuno ha citato Disco Elysium, ad esempio) ed il fatto di essere un videogioco non è vissuto come un "fastidio", ma invece come un punto di forza.
Mi fa inoltre imbestialire il fatto che questo modo di pensare porta a denigrare interi generi videoludici come i giochi di corsa, gli strategici o i picchiaduro (e tanti altri non considerati come degni), tutti giochi che non riceveranno mai ne riconoscimenti, ne premi, ne grandi apprezzamenti solo perchè in molti hanno questa malata ossessione per "l'iper-narrativa" nei videogiochi. Evidentemente c'è molta gente che soffre della sindrome "dell'intelletuale mancato".
cronos199008 Gennaio 2021, 09:43 #10
Il problema del messaggio di quest'articolo non è che i videogiochi possano essere un veicolo narrativo.

Il problema è che i videogiochi dovrebbero essere prima di tutto dei giochi, e poi semmai produzioni narrative. Io non vedo un'evoluzione, quando un'involuzione dei media. Prodotti come The Last of Us (e non è neanche il caso più estremo) sono un problema.

E non perchè mal realizzati o non siano godibili (anzi), ma perchè il focus del prodotto è la narrazione degli eventi e dei personaggi, dove il gameplay ha il solo scopo di esserne al servizio. Una sorta di orpello del quale si potrebbe anche fare a meno, inserito li per giustificare la categoria del prodotto in se.


Non è neanche una questione di preferenze, ma di mera obiettività e logica: un videogioco prevede di essere "giocato", non raccontato. Se la parte ludica è scarna e/o pessima e/o bilanciata male, puoi avere anche il racconto più bello di tutti i tempi: il videogioco sarà pessimo.

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