Recensione BioShock Infinite: cultura al cuore
Eccovi finalmente la nostra recensione di BioShock Infinite, un titolo destinato a cambiare per sempre la storia dei videogiochi. Prima di lasciarvi alla lettura, vi preghiamo di notare che le immagini sparse per l'articolo sono quelle fornite dal produttore, mentre nella gallery e nella pagina 'Gli aspetti tecnici' trovate una serie di shot che abbiamo catturato dalla versione PC di BioShock Infinite impostata al massimo livello di dettaglio grafico.
di Stefano Carnevali, Rosario Grasso pubblicato il 10 Aprile 2013 nel canale VideogamesIl commento di Rosario Grasso
Lascio a Stefano il compito di sviscerare gli aspetti meramente ludici di BioShock Infinite, mentre in questa pagina vorrei occuparmi principalmente delle ripercussioni filosofiche e dello stile della narrazione del nuovo gioco di Ken Levine. Inizio subito col dire che da ora in avanti chiunque voglia fare un videogioco di spessore, sul piano del senso e della cultura, dovrà guardare con particolare attenzione a certe accortezze prese da Levine e dagli altri artisti di Irrational Games. BioShock Infinite diventa un punto di riferimento da questo punto di vista.
L'aspetto che mi preme toccare prima di ogni altro riguarda la critica sociale. In BioShock Infinite c'è una critica sociale graffiante? Lo si può paragonare, da questo punto di vista, a un film indipendente? Quanto conta la storia, intesa con la s maiuscola, in questo gioco?
Da un certo punto di vista BioShock Infinite ripercorre tutti i momenti più critici della storia americana, non mancando di sottolineare le storture e le atrocità, ora nei confronti della gente di colore, ora nei confronti della guerra e per quanto riguarda le violenze sui nativi, ora nei confronti delle discriminazioni sociali. Ognuno di questi aspetti viene convertito per divertare compatibile con lo stile visivo altisonante scelto da Irrational per il suo capolavoro, esaltato e avente un preciso significato all'interno della storia di Booker e di Elizabeth.
È una critica graffiante, dunque? Si, nella misura in cui vedi per la prima volta un approccio del genere all'interno di un videogioco, media erroneamente da sempre considerato come di seconda fascia, incapace a trattare argomenti "seri". Per altri versi, però, come spesso capita al media videoludico, si tratta di un'alterazione troppo forte rispetto alla realtà. Insomma, Levine dà l'impressione che certi riferimenti storici, e certi spunti culturali, siano meramente un mezzo per raggiungere un fine che non è altrettanto storico, ma più intimo.
Rende la storia unica incastrando diversi filoni narrativi, pensati sempre per spiazzare, e contemporaneamente coinvolgere, il giocatore. Si tratta di una storia al servizio del gameplay per certi versi, ma che non manca di essere profonda, toccante e densa di significato, proprio come quella di un film indipendente. Senza rinunciare alla spettacolarità, alle esplosioni e all'adrenalina, tutti elementi tanto cari al pubblico videoludico, che vuole "perdersi" dentro un mondo il più possibile diverso da quello reale.
Le storie di Levine si intrecciano l'una con l'altra in un groviglio che, a un certo punto, diventa inestricabile, perché tutto diventerà chiaro, e molto (nel senso che non c'è tanto spazio per le interpretazioni personali, come invece accade in Mass Effect 3), solo nelle battute finali. Gli sceneggiatori ti tengono quindi coinvolto sparando a raffica storie improponibili, e folli, che si sovrappongono fra di loro, facendo perdere a BioShock Infinite, in molti punti, la struttura tipicamente cinematografica.
Un film, infatti, solitamente veicola un unico messaggio predominante, che la fa da padrone per l'intera durata della visione. Ci sono film e film, ma un'opera che voglia mantenere una sua organicità, e che vuole essere interessante agli occhi dello spettatore, non si può perdere in tanti filoni narrativi (benché ci siano casi come Il Signore degli Anelli, che comunque sono apprezzati da buona parte del pubblico). Un gioco come Tomb Raider, ad esempio, aderisce perfettamente alla strutturazione filmica dell'unico messaggio predominante, legato alla suprema sofferenza della protagonista, mentre altri titoli come Far Cry 3, o lo stesso BioShock Infinite, usano più che altro la storia per rendere interessante il gameplay.
Ma se nel cinema mi sento di poter dire che l'approccio dell'unico messaggio è quello più funzionale, nel videogioco le cose si fanno più complesse. E questo dipende principalmente dalla durata dei videogiochi: serve molto più tempo allo spettatore per portare a termine la vicenda rispetto alle due ore che invece solitamente vanno dedicate al film. Il videogioco, quindi, è più come un libro: dove per ogni sessione affronti una storia, e perdi in certi punti il senso della struttura principale, per poi riabbracciarla solo al termine delle vicende.
Ma le cose si fanno ancora più complicate in BioShock Infinite, proprio perché abbiamo un finale molto frastagliato e "costruito". Un climax incessante verso la conclusione della storia, che porta a una netta cesura rispetto alla prima parte del gioco. Il giocatore viene accompagnato all'interno di un tunnel che, una volta alla fine, rovescerà completamente la prospettiva rispetto all'inizio delle vicende. Una centrifuga che non può essere abbandonata e che ti porta, cosa che amano profondamente i giocatori hardcore, a rimanere incollati allo schermo per ore. Ho terminato BioShock Infinite in circa 14 ore, ma le ultime 5-6 le ho giocate senza interrompermi mai. Qualcuno è riuscito a frazionare l'esperienza di gioco nella seconda parte della campagna? Mi sembra complicato, perché sono ore effettivamente intensissime.
Un rovesciamento di prospettiva che ci riporta al discorso precedente, perché Bioshock Infinite si trasforma da prodotto culturale a storia intima. È chiaro che tutte le opere di intrattenimento, alla fine, diventano una storia intima. Anche nel caso di opere culturali, penso ad esempio a Lincoln, lo spettatore segue uno o più fatti storici, ma sempre dalla prospettiva di un personaggio, che finisce per condizionare tutto. Inizialmente BioShock Infinite sembra una mera ricostruzione della storia americana da una prospettiva distorta, malata; ma alla fine scopriamo che le cose non sono così semplici.
Più che altro il senso che, a mio modo di vedere le cose, Levine vuole dare a BioShock Infinite è il seguente: la storia, sempre quella intesa con la s maiuscola, finisce per condizionare ciascuno di noi. Influisce sulle sue scelte, lo porta a soffrire tantissimo e, in certi casi, a redimersi. È come se i potenti intorno a noi influissero sulle nostre singole vite, forgiando il destino di ognuno di noi. Ci introducono all'interno di un tunnel da quale non possiamo scappare, che condiziona fortemente ognuno di noi. La critica di Levine non è tanto sulle storture della storia intese in senso lato, ma sul come queste storture abbiano inciso sulla storia degli individui, in questo caso di un militare della prima metà del '900.
Ma da un punto di vista più squisitamente del gameplay, c'è un altro aspetto in Ken Levine che va puntualizzato, relativamente al ruolo del giocatore. Nel primo BioShock il giocatore era ridotto a mera marionetta del cattivo, mentre qui è costretto a svolgere delle azioni dalle quali non può esimersi. Non c'è scelta, insomma: se devi essere cattivo devi fare il cattivo, è l'autore che lo decide. Torniamo al discorso del destino e dell'impossibilità di compiere delle scelte, che già altri fanno per noi.
Ma Levine non è solo filosofico in questo, perché inserisce questi aspetti anche nel gameplay e questo lo rende al contempo un geniale creatore di videogiochi. Il giocatore, in qualsiasi opera ludica, deve seguire un canovaccio, svolgere delle azioni prestabilite per andare avanti: in caso contrario, semplicemente, non può terminare il gioco. E quindi l'autore sfrutta questa forzatura che il giocatore impone a sé stesso per costruire tutto un significato sul destino, sull'immodificabilità di certe decisioni, su come la storia grava sui singoli e influisce sulle loro vite senza che questi ultimi abbiano la possibilità di essere veramente liberi.