Rise of the Tomb Raider: il ritorno di Lara Croft
Il reboot di Tomb Raider ha rappresentato una delle ultime grandi opere della scorsa generazione di console. Crystal Dynamics era riuscita a riscrivere un personaggio iconico come Lara Croft, Il titolo del 2013, infatti, aveva saputo resettare tanto il background narrativo di Lara, così come la giocabilità tipica della serie.
di Stefano Carnevali pubblicato il 11 Novembre 2015 nel canale VideogamesMicrosoftXboxSquare EnixKoch Media
Alla ricerca della vita eterna: l'evoluzione di Lara
La parola d’ordine, per Tomb Raider 2013, era anzitutto coinvolgimento: seguendo le vicende della prima avventura di Lara, si sarebbe vissuta un’avventura cruda e - per quanto possibile - realistica, con ampia enfasi sulla sofferenza e gli sforzi fisici della giovane protagonista. In termini di gameplay, invece, si era passati dal platform rigoroso e bloccato (per quanto costellato da enigmi ambientali), tipico delle origini della serie, a un action in terza persona, che faceva dell’esplorazione e dei combattimenti (prevalentemente secondo logiche stealth) il proprio cuore.
Rise of the Tomb Raider, è bene chiarirlo subito, è un ‘more of the same’. Ma è un glorioso e ingigantito ‘more of the same’: torneranno sia gli intrighi a sfondo archeologico e il coinvolgimento drammatico, così come esplorazioni e combattimenti, ma tutto sarà espanso, potenziato e approfondito. E in alcuni casi anche modificato.
I recenti ‘titoloni’ dedicati ad avventurieri e ad archeologi d’azione non possono più prescindere dall’immergere il giocatore in qualche succoso mistero storico, nella caccia a qualche ‘mito perduto’ più o meno celebre. Dopo la sua prima avventura - sulle tracce della mitica Regina Himiko, misterioso esponente della cultura sino-giapponese denominata Yamatai - adesso Lara sarà alle prese con la caccia alla Sorgente Divina, una non meglio precisata fonte di vita eterna, da secoli contesa tra gli ascetici seguaci del Profeta (una setta che affonda le proprie radici essenzialmente nell’Impero Bizantino) e un’organizzazione chiamata Trinità (che sembra intenzionata ad accedere alla Sorgente per soddisfare anzitutto la propria sete di potere). Aldilà dell’obbiettivo della ricerca, a cambiare sono le motivazioni e l’approccio all’impresa di Lara.
Se in Tomb Raider 2013 eravamo alle prese con una testarda ‘figlia di papà’ - desiderosa di mostrare al mondo le proprie capacità e, almeno nelle prime fasi, non consapevole dei rischi a cui si andava ad esporre e poco preparata ad affrontarli - in Rise of The Tomb Raider seguiremo una Lara ben più matura e pronta. L’avventura, questa volta, non viene condotta per mere finalità personali, per affermare le proprie capacità. Lara, infatti, sarà chiamata a riscattare la memoria del padre - Lord Croft -: eminente ricercatore che aveva però visto la propria credibilità compromessa, a seguito degli studi condotti proprio sulla Sorgente Divina. Molto rapidamente, come accaduto a suo padre, la sete di sapere della giovane avventuriera si tramuterà in una vera e propria ossessione. In questa sua ‘seconda’ nuova avventura, la Croft si dimostrerà meno ingenua di quanto visto nel 2013, ma non per questo risulterà priva di difetti: se, nella caccia a Yamatai, erano arroganza e cocciutaggine a farla da padrone, adesso saranno il desiderio di riscatto per la figura paterna e la disperazione a dominare Lara. L’eroina, mai come in questo Rise of the Tomb Raider, metterà in mostra il proprio lato oscuro, la propria incapacità di scendere a compromessi.
A livello narrativo generale, la nostra vicenda, come detto, ci porterà sulle tracce di una leggenda che poggia le proprie basi nell’affascinante cultura bizantina. Come non appassionarsi alle vicende dell’Impero Romano d’Oriente? Con la sua estensione ridotta, con la sua collocazione geo-politica criticissima (circondato da nemici più che aggressivi), con i suoi costumi bizzarri e nati dalla mescolanza di numerose culture, con la sua forza diplomatica in grado di far sopravvivere un comparto militare non sempre all’altezza, con la sua religiosità particolare e caratterizzata da un complesso ‘tira e molla’ tra fasi di laicismo di corte e puro fanatismo, Bisanzio è già di per sé un autentico mistero storico. Caricare questo ‘setting’ di una leggenda legata alla lotta per l’immortalità è certamente un’operazione che dona grande profondità a Rise of the Tomb Raider.
‘Sul campo’, invece, la narrazione dell’ultimo capitolo della saga di Crystal Dynamics, risulta un po’ meno coinvolgente. Come accadeva nel 2013, i riflettori sono puntati con decisione su Lara. Anzi: lo sono maggiormente. Nella caccia al Regno di Yamatai, infatti, la bella Croft era supportata da un cast molto importante e ben caratterizzato. In Rise, invece, avremo personaggi di supporto un po’ meno cesellati che, non a caso, godranno di un minutaggio in scena inferiore. Sono soprattuto i nemici a non risultare credibili fino in fondo: eccessivamente stereotipati, oscillano tra il fanatismo religioso e un’insensata spietatezza nell’operatività. In questo modo non riescono in nessun modo a convincere o ad affascinare e, anche quando ci vengono mostrati nelle loro vulnerabilità, non smuovono il giocatore in alcun modo.