Medal of Honor: conflitto nella modernità
Dopo oltre tre anni dalla pubblicazione di Medal of Honor: Airborne, la saga di sparatutto prodotta da EA si arricchisce di un nuovo capitolo. A sottolineare il radicale distacco col passato, il fatto di non sottotitolare il gioco, chiamandolo semplicemente con il nome della saga. Medal of Honor, appunto. Provata la versione XBox 360.
di Stefano Carnevali pubblicato il 22 Ottobre 2010 nel canale VideogamesXboxMicrosoft
La campagna single player: Danger Close prova l’assalto
La parte in single-player di MOH è stata affidata a Danger Close, team poco esperto con gli sparatutto in prima persona ma decisamente ambizioso. Per mesi i programmatori di Los Angeles ci hanno bombardato di trailer e notizie, sbandierando la loro stretta cooperazione con le forze armate statunitensi durante tutta la realizzazione del gioco. MOH, infatti, nasce proprio da confidenze, testimonianze e feedback prodotte dai Tier-1, il meglio del meglio dei reparti speciali americani.
Va subito detto come lo spunto narrativo di Danger Close non sia nulla di speciale: abbiamo visto tantissime volte -nei videogiochi come al cinema- soldati tutti d’un pezzo, pronti a dare la vita per la causa e per i propri compagni, impegnati in missioni pericolosissime, nei più ostili angoli del mondo. Aggiungeteci la ‘classica’ figura del Generale che, a migliaia di Km dal campo di battaglia, si ostinerà a prendere decisioni ottuse e completate il quadro con la poca chiarezza dello svolgersi degli eventi (di fatto le operazioni si susseguono una dopo l’altra e presto gli americani acquisiranno consapevolezza che, oltre ai Talebani, ci sono altre forze ostili in campo. Tutti concorderanno che «Sta succedendo qualcosa di grosso», ma di fatto non si capirà mai chi sta tirando le fila e perché). Otterrete così un plot piuttosto banale e poco innovativo.
Ma Danger Close ha fatto anche qualcosa di buono, dal punto di vista della storia: il metodo narrativo. Durante tutto il gioco, infatti, la trama si svilupperà praticamente senza interruzioni, facendoci passare da un personaggio all’altro, senza soluzione di continuità. Con alcuni tocchi di classe, quando -per esempio- i nostri personaggi arriveranno quasi a contatto, prendendo parte, anche se in tempi diversi, alle medesime operazioni e supportandosi a vicenda. La sensazione -davvero molto buona- è quella di un’intera macchina bellica che si muove, per quanto possibile, all’unisono. Coordinando sforzi e risorse in cerca della vittoria finale. In questo modo si può capire piuttosto bene l’intera dinamica di un’operazione militare. Presumibilmente questa efficacia è dovuta proprio alla collaborazione dei veri soldati alla realizzazione del gioco.
Danger Close ha deciso di affidare questa narrazione così efficace a uno shooter molto cinematografico, che punta a far immedesimare il giocatore attraverso i sensi e le emozioni piuttosto che con la ragione. Non ci si può aspettare, quindi, un gioco strettamente simulativo bensì un insieme di situazioni pensate per dare un’epica credibilità all’insieme del combattimento.
E MOH, da questo punto di vista, si può considerare un successo: l’azione -grazie al fatto di impersonare soldati membri di corpi molto diversi- è quanto mai diversificata (nello stantio settore degli shooter, MOH raggiunge picchi di variazione raramente toccati da altri giochi) e intensa. Ci troveremo a svolgere azioni di combattimento in campo aperto o in anguste grotte; dovremo -armati di un saw M249- coprire con fuoco continuo le mosse dei nostri compagni; avremo tra le mani potenti puntatori ottici, in grado di scatenare artiglieria e bombardamenti a tappeto sui nostri nemici; impersoneremo il copilota di un Apache, e saremo chiamati a portare la morte dall’alto su numerose installazioni ostili in una missione frenetica e spettacolare; saremo anche protagonisti di azioni in notturna, dove dovremo infiltrarci silenziosamente tra le linee nemiche, per eliminare gli ostili a distanza, utilizzando un clamoroso Barret.
I cambi di ritmo e le variazioni sul tema bellico non mancano proprio, nel nuovo MOH. E l’immedesimazione sensoriale raggiunge l’apice grazie alla perfetta realizzazione di tutto il comparto sonoro del gioco e alla resa -davvero esaltante- delle armi. Per quanto riguarda l’audio (oltre a una colonna sonora dinamica, che svolge egregiamente il proprio dovere), è tutto quello che c’è d’ambientale a raggiungere livelli d’eccellenza. I suoni della natura, nei momenti di calma, restituiscono il giusto feeling (da brividi il vento nelle vallate dei monti Shah-i-kot), ma è quanto si sente durante i combattimenti a lasciare stupiti. Per prima cosa i nostri compagni: gridano, danno indicazioni (sorprendentemente utili e precise), insultano il nemico con una naturalezza (anche in un ottimo doppiaggio italiano!) -e solo occasionali ripetizioni- degna di essere ricordata. I nemici, invece, peccano di incisività nel loro strepitio da battaglia. Ma poi ci sono le armi, che cantano. Tutti -e sottolineo tutti- i suoni prodotti dalle armi da fuoco sono magistralmente e molto fedelmente realizzati. Sparare con l’arma perfetta (M60, you know!) restituisce la giusta sensazione di lenta e potente inesorabilità, mentre una raffica di AK-47 esplode in tutta la propria sferragliante agilità. Un lavoro sontuoso è stato anche effettuato nei suoni di ricarica: ogni materiale presente nelle armi e nei caricatori fa il proprio doveroso suono.
Proprio le armi –come si è potuto intuire- sono un altro fiore all’occhiello di MOH. Detto del loro comportamento sonoro, è giusto citare la loro resa fisica. La quale è estremamente coerente e realistica. Le differenze tra le singole armi della stessa categoria sono molto ben implementate (sparare con un M60 è molto diverso dal far fuoco con un PKM, per quanto si tratti di due mitragliatori pesanti) e -ovviamente- tra le diverse classi c’è un abisso. Ottima anche la reintroduzione, sui fucili d’assalto, della possibilità di scegliere la modalità di fuoco (colpo singolo o raffica).
Danger Close costruisce l’immedesimazione nel personaggio e l’immersione nella vicenda proprio grazie a questi strumenti. Supportandola e sublimandola con un’ottima IA dei compagni e con un mission-design molto curato e funzionale.
I nostri commilitoni sono efficienti e precisi, ma mai invasivi. Sono immortali, ma agiscono spesso e volentieri con la dovuta cautela e precauzione (molto meglio, per intenderci, di quanto visto in Halo Reach, laddove gli immortali Spartan che ci accompagnavano restavano bellamente alla mercé del fuoco nemico, sempre e comunque) e, soprattutto, sono una costante fonte di informazioni precise sulla condotta del nemico. Quanto alla struttura ‘immedesimante’ delle missioni, è stato fatto un buon lavoro. In particolar modo nelle sessioni coi Ranger, i quali sono i soldati ‘più normali’ tra quelli messi in gioco. Con loro si vivranno attimi intensi -caratterizzati da disorientamento, panico e condizioni ambientali avverse-. Sono momenti che ricreano alla perfezione le difficoltà a cui vanno incontro le truppe ‘tradizionali’ nel condurre azioni anti guerriglia. Davvero ben fatte.
Purtroppo questa immedesimazione e questo intenso lavoro finalizzato a regalarci un’IA alleata sempre presente ed efficace, stanno anche alla radice dei principali problemi di MOH. Che ci sono e sono piuttosto rilevanti.
Per prima cosa, la campagna in singolo è tanto intensa quanto breve: in 5 o 6 ore si arriverà al termine delle missioni, anche giocando al livello di difficoltà più alto (che poi è forse l’unico livello degno di essere preso in considerazione, qualora non si sia del tutto digiuni dagli shooter bellici).
C’è poi da segnalare quanto l’esperienza di gioco sia una successione di eventi scriptati piuttosto pesante: in troppe situazioni tutto si ridurrà ad arrivare in un ‘certo punto’ per causare un’animazione, un crollo, la comparsa di nemici (sì -ahimè- comparsa, non arrivo: se sarete ‘troppo avanti’ rispetto al resto della squadra, infatti, potrete assistere a tristissimi ‘respawn’ di Talebani che letteralmente compariranno dietro le rocce per poi attaccarvi). La sensazione frequente è quindi quella di trovarsi in grandi aree di ‘gioco’ una slegata all’altra, dove uccidere tutti. Per poi raggiungere in modo spettacolare e credibile, un’altra area irrealistica.
Queste ‘brutte sensazioni’ sono acuite dal comportamento poco intelligente dei nemici. D’accordo, si suppone che molti di loro siano fanatici terroristi, magari pronti a immolarsi per la causa. Ma questo non giustifica l’apparente assenza di strategia e di intelligenza militare (o addirittura di istinto di sopravvivenza) che contraddistingue le forze d’opposizione. Spesso i Talebani (o i loro ‘colleghi’ che si incontreranno più avanti nel gioco) si riverseranno nelle aree di combattimento senza alcuna strategia, lanciandosi in assurdi assalti senza speranza. A volte cercheranno delle coperture, ma poi si ‘fossilizzeranno’ in quelle posizioni, compiendo sempre i medesimi movimenti. E divenendo così facili bersagli. Un vero peccato, visti gli sforzi di creare empatia con la missione e i nostri uomini.
Questa linearità di situazioni scriptate e questa IA nemica insufficiente, possono davvero essere il prezzo da pagare per avere dei compagni sempre in grado di agire e di informarci coerentemente in base a quanto avviene. Ma sono difetti che lasciano l’amaro in bocca.
In definitiva: ci si sente dei soldati, si vivono situazioni varie e intense e si hanno dei compagni validi. Ma si fronteggiano nemici illogici in scontri a fuoco poco realistici, in un susseguirsi di eventi precalcolati. Per solo 5 o 6 ore (poco interessante, a mio parere la modalità Tier-1 che fa rigiocare le missioni come fossero una gara a tempo). Colpevolmente assente, poi, la possibilità di giocare la campagna in cooperativa. I classici due lati della medaglia.
Dal punto di vista tecnico, invece, ci si attesta su livelli complessivamente buoni: le animazioni dei soldati fanno un lavoro egregio, così come la resa di luoghi e armi. Notevoli gli sforzi di sorprendere, per quanto riguarda la percezione visiva, regalandoci molti -credibili e ben fatti- ostacoli naturali (il sole, le ‘splendide’ piogge di detriti dopo un’esplosione, la foschia del mattino). Tutti elementi che contribuiscono al farci sentire in azione. Da sottolineare negativamente, invece, gli occasionali cali di frame rate, che avvengono nelle fasi più concitate.
Interessante e da citare, una bella idea che riguarda la gestione del movimento del nostro alter-ego. Nel mondo degli shooter in soggettiva si sente il bisogno di ‘spingersi oltre’ i classici binari di movimento. Soprattutto vista l’abilità e il realismo delle azioni dei nostri compagni. Danger Close e non rivoluziona (no, niente sistema di coperture), ma introduce la scivolata (quando si corre, se ci si inginocchia, si scivola): un’utile variante in cerca di rapida copertura. Non fa la differenza, ma è utile e piacevole.
Da segnalare anche la possibilità di chiedere munizioni ai compagni. Sembra una banalità, ma così si evita l’irreale necessità di fare gli sciacalli del campo di battaglia, rubando le armi ai nemici caduti. In MOH si comincia e finisce -volendo- la missione con l’arma in dotazione. Come nella realtà.