Videogiochi, quale impatto sul cervello?

Videogiochi, quale impatto sul cervello?

Abbiamo coinvolto tre psicologi professionisti in un'indagine a proposito dell'impatto che i videogiochi hanno sul cervello dell'essere umano. Passando in rassegna gli studi che sono stati fatti fino a oggi, cerchiamo di capire i benefici, ma ovviamente andiamo alla ricerca anche dei fattori controproducenti, andando ad indagare il problema della dipendenza. C'è una differenza tra titoli emotivi e competitivi? È una delle domande che abbiamo posto a Giuseppe Riva, Docente di Psicologia della Comunicazione dell'Università Cattolica di Milano; a Luca Mazzucchelli, Vice Presidente dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia; e a Mauro Lucchetta, Psicologo Clinico dello Sport e delle Nuove Tecnologie.

di pubblicato il nel canale Videogames
 

Gli studi più recenti

Detto questo, come conclude lo stesso paper a cui stiamo facendo riferimento, il training con i videogiochi resta una delle poche tecniche di training capaci di evidenziare in maniera netta fenomeni di trasferimento al di là del compito allenato. "I videogiochi aumentano la creatività in termini di produttività e originalità e migliorano la capacità di processazione di stimoli attentivi e visuo-percettivi. Allo stesso tempo però hanno un impatto negativo sulle performance di tipo metacognitivo, come la rielaborazione e il riassunto delle informazioni", ci ha detto il Prof. Riva citando altri due studi (qui e qui).

Il primo studio in questione è stato realizzato da una ricercatrice taiwanese che lavora per la Liverpool Hope University, Chloe Shu-Hua Yeh. Stiamo naturalmente parlando di uno studio molto più recente rispetto a quelli a cui abbiamo fatto prima riferimento volto a esplorare gli effetti prodotti da due differenti tipi di videogiochi online, uno d'azione e l'altro no, sulle successive attività creative legate alla generazione di idee e a risposte emotive. I risultati hanno mostrato che i partecipanti che avevano giocato al titolo d'azione producevano risultati superiori in termini di originalità, elaborazione e flessibilità. Coloro che invece avevano giocato al titolo non-azione, invece, producevano risultati migliori per quanto riguarda la produttività. Inoltre, giocare entrambi i giochi ha suscitato emozioni positive con alto orientamento motivazionale legato al desiderio di riuscire in un'attività. Nel gergo psicologico, si parla di orientamento motivazionale quando un certo comportamento o una certa reazione ad una situazione vengono ricompensati in maniera positiva o desiderabile.

D'altra parte il gioco d'azione ha provocato più stress nei partecipanti al test. In definitiva, questa ricerca evidenzia una complessa corrispondenza tra quantità (produttività e flessibilità) e qualità (originalità ed esplorazione): il gaming, in altre parole, produce un fattore emotivo che può influenzare le attività creative successive e indipendenti al gaming, ma produce allo stesso tempo maggiore eccitazione e stress che possono influire negativamente su flessibilità e produttività.

Secondo più recenti studi (vedi Adam C. Oei, Michael D. Patterson), sono i cosiddetti AVG (action videogames) a offrire i maggiori benefici sul piano cognitivo e percettivo. Con questa sigla ci si riferisce principalmente a titoli come Call of Duty, Counterstrike, Unreal Tournament e Medal of Honor, ovvero quegli sparatutto in prima persona che più sovente sono stati utilizzati per svolgere i test di cui stiamo parlando. Anche se altri generi di gioco, come gli rpg come Final Fantasy o i puzzle game come Tetris, hanno in comune alcuni elementi con gli AVG, come le velocità di reazione, raramente presentano contemporaneamente tutti gli elementi propri degli AVG. Si nota che non si conoscono quali sono gli elementi degli AVG che garantiscono le migliori performance di trasferimento e non è determinato se è necessaria la presenza di tutti questi elementi o se alcuni di loro siano più utili degli altri in tal senso.

Come abbiamo detto nelle pagine precedenti, gli studi rilevano quasi sempre una corrispondenza tra giocatori e abilità cognitive superiori, ma non è mai stato chiarito se sono i videogiochi a migliorare le abilità cognitive o se le persone con abilità cognitive superiori sono maggiormente predisposte a diventare giocatori. A questo va aggiunto il discorso sulle motivazioni già fatto.

Se, dunque, i benefici legati ai videogiochi vengono ormai considerati come assodati da un buon numero di psicologici, non si conoscono ancora bene i meccanismi di trasferimento. Una proposta per spiegare il trasferimento su una così vasta gamma di abilità percettive, attentive ed esecutive è quella di ricorrere a un modello di inferenza probabilistica. Ovvero, coloro che vengono allenati agli AVG diventerebbero più abili per via del fatto di dover ripetere compiti molto simili tra di loro che li porterebbero a eccellerre nel processo decisionale e nell'allocazione delle risorse cognitive.

I videogiochi così migliorano quella che gli psicologi definiscono attenzione top-down, ovvero un tipo di attenzione consapevole prodotta dalla neocorteccia. Si sta parlando qui di abilità progettuale, in opposizione alla cosiddetta attenzione bottom-up. Involontaria e guidata essenzialmente dalle emozioni quest'ultima, quanto legata all'elaborazione di nuovi progetti e alla presa di controllo sugli automatismi la prima. Per queste ragioni l'attenzione top-down è più faticosa e riguarda l'apprendimento di nuovi compiti a cascata a partire da compiti inizialmente più basilari. Anche in questo caso in psicologia c'è una definizione ben preciso: "imparare ad apprendere".

Ora, anche questa visione può essere sottoposta a puntualizzazioni. Innanzitutto non è chiaro se questo trasferimento verso una generale capacità di apprendimento riguardi solo gli AVG o altri generi di videogiochi. Inoltre, non risulta determinato come questo trasferimento si cambini con gli altri rilevati nella letteratura degli studi sul miglioramento delle abilità cognitive o percettive, se sia da considerare in abbinamento agli altri miglioramenti o al loro posto. Altri studi, secondo Oei e Patterson, evidenziano comunque che il trasferimento dal training è più probabile se le attività di training e di transfer fanno riferimento alle stesse regioni neurali.

 
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